L’Italia in mutande (ma in piedi) - Terza Edizione ampliata

di

Sergio Pizzuti


Sergio Pizzuti - L’Italia in mutande (ma in piedi) - Terza Edizione ampliata
Collana "La Magnolia" - I libri di Umorismo e Satira
15x21 - pp. 350 - Euro 14,00
ISBN 978-88-6587-4141

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Libro scritto da Sergio Pizzuti e Marco Raja


In copertina vignetta di Carlo Lazzaretti


PREFAZIONE

Come vi renderete conto leggendo questo libro, esso è colmo di citazioni di persone più o meno famose, che scrivono sull’Italia e sugli italiani, alcune volte in modo speranzoso, altre in maniera drastica. Da queste considerazioni e dalle nostre riflessioni ne nasce questo libro satirico, ironico ma anche serioso.
La prefazione desideriamo iniziarla con le citazioni di due scrittori, uno straniero e l’altro italiano. Alan Friedman ha scritto nel 1996 il libro “Il bivio” (L’Italia a metà strada tra crisi e transizione), ove nella sua nota si chiede: “Dove va l’Italia? Che cosa succede in questo Paese tanto dotato di storia, cultura, bellezza ma anche, purtroppo, appesantito da mezzo secolo di partitocrazia a Roma, di mafia al Sud, e oggi dalla disoccupazione e da un’insopportabile pressione fiscale che lacerano la società, inasprendo i contrasti sociali e rendendo sempre più difficile la sfida incalzante del nuovo millennio?”
Quasi contemporaneamente nello stesso anno veniva pubblicato il libro di Roberto Gervaso intitolato “Peste e corna”, ove l’autore scriveva: “Questa Italia che si balocca fra anarchia e regime è un Paese ipocrita e pusillanime, contorsionista e trasformista, opportunista e conformista. Un Paese dove d’insormontabile ci sono i cavilli e di truffaldino soprattutto le ideologie. Un Paese che si vergogna delle cose di cui dovrebbe andar fiero e s’inorgoglisce di quelle di cui dovrebbe arrossire. Un Paese che passa impunemente dall’arsenico alla vaselina, dal pugnale al turibolo, che confonde il peccato con il reato, il confessore con il procuratore di giustizia. Un Paese che gli Unni della Prima Repubblica hanno spicinato e i tangentisti consociativi ridotto in brache di tela. Anzi, in mutande”. Ecco da dove deriva il titolo di questo libro; noi italiani ci siamo ridotti, o meglio ci hanno ridotto i vari governi, che si sono succeduti, in mutande, se non in perizoma, per coprire le vergogne che non si devono vedere pubblicamente. Perciò l’Italia, individuata in copertina come un uomo in mutande, si copre con le mani gli attributi maschili, dato che a poco a poco, pur essendo entrata nel terzo millennio da dieci anni, e sebbene sia già avvenuto il trapasso dalla prima alla seconda Repubblica, si sta aspettando la terza per fare le riforme istituzionali, come la riforma fiscale, la riforma della giustizia e la trasformazione della Costituzione, sia per ridurre con l’occasione il numero dei deputati e dei senatori (per diminuire i costi della politica), sia per cambiare l’elezione del Presidente della Repubblica (in via diretta da parte dei cittadini), sia per incrementare le funzioni del Premier alla pari degli altri Capi di Governo europei (tra cui quella di nominare e revocare i Ministri), e per operare la separazione dei poteri del Senato e della Camera dei deputati, in modo da renderli indipendenti e agevolare la funzione legislativa limitandola a una sola Camera. Nel frattempo abbiamo festeggiato il centocinquantesimo della nascita dell’unità d’Italia come Nazione. Ma cosa dovevamo festeggiare? Che l’Italia va sempre più male, che i nostri giovani non trovano lavoro tranne forse i raccomandati, che noi italiani, esclusi i ricchi e i politici, facciamo fatica ad arrivare con qualche soldo in tasca a fine mese? C’era poco da festeggiare, come dimostrano sia le citazioni richiamate in questo libro sia le riflessioni che ne conseguono, sia la nuova versione dell’inno “Fratelli d’Italia” riscritta da uno di noi, che spiega: “L’inno «Fratelli d’Italia» fu composto nel 1847 dal poeta e patriota Goffredo Mameli su musica del maestro Michele Novaro e solamente nel 1946 divenne “Inno Nazionale”: lo scrittore e patriota Carlo Cattaneo già nel 1850 a Lugano, con una quartina intitolata “Controcanzone ai Fratelli d’Italia” parafrasò ironizzando l’inno scrivendo: “Che dite? L’Italia non anco s’è desta. / Convulsa sonnambula / scrollava la testa”.
“Al meeting di Comunione e Liberazione di Rimini, 33a Kermesse ciellina, ribattezzata “Edizione dei tecnici” per la presenza del capo del governo tecnico e di cinque ministri, pur sostenendo il premier Monti, il quale ha detto che “siamo vicini all’uscita della crisi”, a conclusione del suo intervento, tre ragazzi hanno esposto lo striscione con la scritta: “Ci hai lasciato in mutande. “Poi sono passati ai fatti, denudandosi davvero.
Non avevano certamente letto il nostro libro, nella prima edizione del 2010, e nella seconda del 2011, ma si sono mostrati in mutande per manifestare la loro delusione nei confronti del governo Monti. Tanto è vero che un mese dopo, il 21 settembre 2012, visto che il Pil era sempre più giù, il premier ha differito il termine di ripresa al 2013, affermando alla stampa che “La luce della ripresa è vicina, il 2013 sarà un anno di ripresa e nello stesso periodo sarà raggiunto il pareggio di bilancio”. E continuava: “Certo è che, se l’Italia del risanamento dei conti pubblici, non solo i mercati, darebbero segnali negativi sarebbe più difficile esercitare un’influenza in Europa. (…) La parola stangata è ricorsa pochissimo quest’anno, noi stiamo lavorando non per un aumento delle tasse, ma per ridurre la spesa pubblica”. Pur confermando il programma delle dismissioni, sia del patrimonio dello Stato che delle partecipazioni pubbliche, (le cui procedure di alienazione non sono ancora iniziate), i cui proventi ammontano a un punto Pil (Prodotto Interno Lordo, che rappresenta il risultato finale dell’attività produttiva di imprese e di amministrazioni pubbliche svolta nel territorio del Paese), tra gli operatori finanziari c’è la convinzione, che, anche se il rapporto Deficit-Pil scenderà allo 0,9% nel 2012, il pareggio “strutturale” arriverà nel 2013, l’anno della luce. Ma sarà così? Sarà vero, ma non ci credo, diceva Totò. Nel 2013, anziché in mutande, saremo in perizoma (è più sexy). Comunque il primo a parlare di Italia in mutande è stato Beniamino Andreatta, ministro degli Esteri, che, commentando il voto degli italiani all’estero nel novembre 1993, disse: “ciò dimostra che è questa la democrazia in mutande che vuole il Pds”. Ma, come scrivono Sergio Stimolo e Gianna Fregonara nel loro “Onorevole parli chiaro”, “anche il segretario del suo partito Martinazzoli, pochi giorni dopo non esitò a parlare di slip: “In questa campagna elettorale, sembra che conti di più il colore delle mutande che l’intelligenza delle persone” E commentò tale notizia Enzo Biagi: “Stiamo vivendo la saga della mutanda”. Io non so se stiamo in mutande, in slip o in perizoma. Non vorremmo però camminare nudi prima o poi, visto che sono trascorsi quasi vent’anni dall’enunciazione di Andreatta e abbiamo già presi troppi raffreddori. Non vorremmo ammalarci sul serio!
Oggi addirittura alcuni politici, soprattutto quelli della Lega Nord, vorrebbero sostituire l’inno nazionale suddetto con “Va’ pensiero” di Verdi. Cosa penserebbero oggi i cosiddetti Padri della Patria?
Da secoli la nostra bella ma umiliata Italia è motivo di attenzione di personaggi illustri e fra i primi i poeti che ne denunciano le sorti. Lo dimostrano le prose, le poesie, gli epigrammi e le riflessioni concentrate nel capitolo terzo di questa raccolta di pensieri e citazioni sulla nostra Patria, l’Italia dei campanili, che ancora oggi suonano le loro campane in modo diverso, forse perché i propri abitanti parlano lingue dialettali diverse, oltre l’italiano comune, e la pensano anche diversamente, non solo politicamente. Nel libro “Cattivi esempi” pubblicato nel 2001 Mario Pacelli scrive: “Garibaldi, Mazzini, Cavour, Gioberti, Ricasoli, Minghetti: l’elenco dei “padri” della patria potrebbe continuare a lungo. La retorica ufficiale li ha spesso descritti come individui pensosi solo del bene pubblico… Troppo bello per essere vero: infatti non lo era. Accanto all’Italia ufficiale grondante di pubbliche virtù ne esisteva un’altra permeata di vizi pubblici e privati, di corruzione, di angherie grandi e piccole, di verità accuratamente celate”.
Questa nostra terza edizione, prodotta nel 2013 è stata aggiornata in seguito alle vicende del governo tecnico nato il 17 novembre 2011 guidato da Mario Monti e finito con le dimissioni del premier in dicembre 2012, ed ampliata con un nuovo capitolo riguardante la rifondazione dei partiti in Italia e l’inizio della Terza Repubblica con lo “scoop” dei grillini parlanti (Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo). Nel frattempo si è passati dalle “mutande” al “perizoma”.

Gli autori


L’Italia in mutande (ma in piedi) - Terza Edizione ampliata


Alle nostre mogli
e alle nostre figlie


N.B.: Gli aforismi tra un articolo e l’altro, riportati dopo gli asterischi, sono di Marco Raja.


I titoli preceduti da asterischi riguardano prose, poesie, epigrammi e riflessioni tratti dal libro «La Casta ci incastra» degli stessi autori del gruppo editoriale Esselibri-Simone di Napoli e dal libro «Satireggiando» di Marco Raja.


CAP. I


L’Italia e gli Italiani visti da Marco Raja

  • PENSIERO ITALIANO

Dopo aver letto al mattino il quotidiano,
così si mette a ragionare l’italiano:
– Se rubare per il partito non è rubare,
poiché sottrar quattrini si chiama finanziare,
io, che sono stato onesto, commisi grave reato,
come molti, rimasi un gran fregato.
Ma finalmente ho capito l’aria che tira,
torno a casa e cambio vita e mira,
fondo un partito, incasso a tutte le ore,
rubo, per la sua salute, facendo il finanziatore. –


SILLOGISMO POLITICO ITALIANO

I politici formano i partiti. I partiti spartiscono gli uomini e le donne. Gli spartiti creano fanatici. I fanatici creano casini. Il casino significa caos. Il caos è l’anagramma di caso. Il caso può essere pietoso. La pietà genera tolleranza. La tolleranza è tollerata dalla politica. La politica è una casa di tolleranza. La casa di tolleranza è un bordello. Nel bordello ci sono le prostitute. Le prostitute sono frequentate dai puttanieri. I puttanieri sono i politici più spregiudicati. Gli spregiudicati rovinano l’Italia. L’Italia ci disonora nel mondo. Il nostro mondo è immondo. Amen! L’amen è la finale rassegnazione dell’italico minchione!


  • I BIMBI D’ITALIA

Nei tempi andati,
nell’itala terra,
uno solo comandava.
Venne poi la guerra,
fu una vita cupa,
i bimbi d’Italia
si chiamavan “figli della lupa”.
Oggi al comando,
nella patria mangiatoia,
le mandibole son troppe.
Si ruba e s’ingoia,
in totale omertà,
ancor si spara.
Or che abbiamo la libertà,
la vita è pur amara,
non più “figli della lupa”,
ma sol “della lupara”.


  • ITtAALLIAAAA

L’Ittalliaaaa, nonostante tutto, rimane “il giardino d’Europa” ma con scarsa manutenzione. Ci sono troppe piante infestanti che si fanno festa reciprocamente. Sarebbe pertanto necessaria una dilatazione nazionale. Parlando e scrivendo dell’Italia, bisognerebbe dire e scrivere: “Ittalliaaaa” per poterla aiutare a uscire dalle ristrettezze.

***


Non pochi nostri politici sono una nullità. Il prefisso del loro telefonino dovrebbe essere: 6, 1, 0 (sei, uno, zero).


ITALIA NON ECOLOGICA

L’Italia è una penisola confinante con montagne di debiti e mari di guai. È uno stivale bagnato da quattro mari e dalla pipì dei turisti e degli extracomunitari. L’Italia è un Paese di debole costituzione, ha sempre bisogno del ricostituente della ria­nimazione. Quasi ogni anno frane e incendi la feriscono, la indeboliscono e la rovinano, perché gli italiani non sono capaci di proteggerla, come se non fosse la loro terra. Perché? Io ci terrei alla mia casa, al luogo che mi ha dato i natali, laddove sono nato e cresciuto. Perché dobbiamo rimboccarci le maniche quando potremmo preventivamente evitare tali disastri? Spero che gli italiani, compreso me, si diano da fare in tal senso, prima e non dopo gli eventi.


Homo Italicus

Nel nostro Paese tutto ciò che è gratuito e pubblico è bistrattato e disastrato. Pare proprio che l’Homo italicus nell’atto di accogliere qualcosa da usare in collettività diventi all’improvviso pezzente e sgangherato da tutte le parti. È questa un’infezione che comincia dentro di noi, dal cervello e dal cuore, per diffondersi poi rapidamente in ciò che ci circonda e ci ospita. Un bosco o una strada cittadina, una spiaggia o uno stadio, un fiume o una carrozza ferroviaria, un parco o un’aula scolastica, tutto, ma proprio tutto quanto ci è dato come bene naturale o come servizio sociale, diventa pattumiera collettiva, imbratto stratificato, squasso societario, devastazione comunitaria, mentre questo insulto supremo verso il buon vivere comune, uccide in noi la speranza di una società meno balorda, che ci confezioni un mondo meno indigesto per i nostri stomaci, troppo delicati per poter mandare giù tutto con l’imbuto da damigiana.


  • GENESI DELL’ITALIA E DEGLI ITALIANI

Durante i giorni della Creazione, quando Dio estrasse dal caos l’Italia somigliante a uno stivale da calzare a lungo, gli riu­scì così bene e fu soddisfatto. Vide che “era cosa buona” e subito pensò: “Se tanto mi dà tanto, per custodirla così preziosa e bella creerò gli Italiani”. Nell’entusiasmo creativo non immaginò che questo fantasioso popolo da lui escogitato poteva riportare questa Sua bella Italia al caos primordiale, soprattutto non sapendo che l’uomo era un animale politico. Se ne accorse dopo il risveglio dal riposo seguito ai sei giorni di fatiche e con benevolenza di nuovo pensò: “Non tutto il male viene per nuocere, questa è una scusa buona per rifare daccapo la stupenda Italia”. Sorrise misericordioso con il dubbio se popolarla ancora con gli Italiani. Poi decise per il sì, cambiando tipo di fango, con meno impurità incorporate e, una volta seccato, meno riducibile in polvere a disposizione secondo il vento che tira.


Simboli dei partiti italiani

Nell’odierna baraonda politica italiana persino i simboli dei nostri partiti si stanno fracassando, assumendo nuovi significati ammonitori, in un ammasso di rottami ove tutto è aggrovigliato e rammentato in un immenso cumulo forse nemmeno riciclabile. Sospinto da pruriginosa curiosità, mi sono messo a rovistare fra questa cianfrusaglia stravolta in cerca di nuovi significati affioranti e ho visto: scudi crociati che son croci. Croci senza speranza lasciate in libertà. Libertà e speranze messe sulle croci. Croci schiodate da martelli. Martelli tagliati da falci. Falci e martelli stampati su drappi di sangue. Sangue che nasconde bandiere. Bandiere che si coprono di vergogne. Vergogne che si vestono di tricolore. Tricolore che arde in fiammate. Fiammate di soli al tramonto. Tramonto di rose prese a pugni. Pugni con rose appassite. Appassite corolle di garofani deflorati. Deflorati con rossi garofani. Garofani invasi dall’edera. Edera infestata da parassiti. Parassiti invischiati di scandali. Scandali sepolti nella sabbia. Sabbia che forma il deserto. Amen.


  • UNA NUOVA CAPITALE PER L’ITALIA

L’Italia è uno dei Paesi più belli del mondo, peccato che si tratta di una Repubblica fondata sul “chiasso”, sostantivo maschile che trova i suoi sinonimi, simili e derivati, in: “assordamento”, “baccano”, “bailamme”,”cagnara”, “canea”, “clamore”, “clangore”, “diavolio”, “fracasso”, “fragore”, “frastuono”, “gazzarra”, “gridio”, “pandemonio”, “putiferio”, “schiamazzo”, “strepitio”, “urlio” ecc, tutte negatività per il mal vivere del corpo e dell’anima, che trovano meno numerosi contrari in: “pace”, “quiete”, “raccoglimento”, “serenità”, “silenzio”, “tranquillità”, tutte positività per il buon vivere del corpo e dello spirito.
Siccome tutte queste negatività si trovano inserite a cominciare dalle sedi di chi governa (le due Camere e il Governo), per estendersi poi in tutta la Repubblica: dalle strade alle piazze, dalle paninoteche alle discoteche, dai concerti moderni agli stadi, dalle manifestazioni di protesta a quelle di giubilo, dai programmi televisivi alle nostre case, dappertutto insomma, è necessario darsi una calmata per non soccombere per eccesso di decibel. Se la calmata non avviene in tutti e in tutto, bisogna cambiare almeno la città capitale. Invece della città eterna, cioè Roma, che tra l’altro è stata ufficialmente definita “capitale” d’Italia dalla Costituzione come recentemente modificata in tal senso dal Parlamento italiano, la città di Chiasso dovrebbe essere la più consona capitale d’Italia. Peccato che si trova nella Confederazione Svizzera a un passo da noi. Bisognerebbe allora acquistarla senza indugio.
Conclusione in modesta rima proletaria: Chiasso capitale, / per gli italici rampolli sarebbe l’ideale / intelligente passo, / e comunitario spasso / aver capitale Chiasso.

***

L’Italia è una penisola scoperta dagli extracomunitari in cerca del primo articolo della Costituzione italiana, i quali fanno fatica a farlo applicare, poiché questo articolo è stato mutilato recentemente dal lavoro inesistente.

L’Italiano è un popolo che si abitua facilmente alla maggioranza dissoluta, che con difficoltà si dissolve.

[continua]


CAP. II

L’ITALIA E GLI ITALIANI VISTI DA SERGIO PIZZUTI


DEFINIZIONE DI ITALIANO

Già con l’unità d’Italia un uomo politico, scrittore e pittore piemontese, il marchese Massimo d’Azeglio, che fu presidente del Consiglio dei Ministri dal 1849 al 1852, disse: “l’Italia è fatta. Ora bisogna fare gli Italiani”. Molti scrittori stranieri e italiani hanno scritto sugli italiani, per es. Enzo Biagi (“I come Italiani”), Giorgio Bocca (“Italiani strana gente” e “L’Italia l’è malada”), Luigi Barbini (“Gli Italiani: virtù e vizi di un popolo”), Beppe Severgnini (“La testa degli italiani”), David Bidussa (“Siamo italiani”), Antonio Caprarica (Gli italiani la sanno lunga o no!?), Piero Ottone (“Italia mia”), Aldo Cazzullo (“L’Italia de Noaltri” con il sottotitolo “Come siamo diventati tutti meridionali”), Riccardo Iacona (“L’Italia in presadiretta). La migliore definizione dell’italiano è quella data per esclusione da Ferdinando Martini di Firenze (facendo parlare un inglese): “Siete troppo linfatico per un greco, troppo vivace per un olandese; parlate da mezz’ora con un uomo di cui non sapete il nome, non siete un tedesco; parlate poco, non siete un francese; avete dato la mancia al facchino, non siete uno svizzero; non avete le mani sudice di tabacco, non siete uno spagnolo; non portate diamanti alla camicia, non siete un sud-americano; non vi prendete i piedi in mano, non siete un nord-americano; non avete ancora lodato l’Inghilterra, non siete un inglese. Dunque siete un italiano”.
C’è poi l’italiota, che sarebbe l’abitante della Magna Grecia o, in senso spregiativo, l’italiano con riferimento ad eventuali supposti caratteri di ottusità o arretratezza culturale o l’abitante di quell’“Italietta”, con cui con affetto e ironia alcuni scrittori o giornalisti indicano il nostro Paese per rilevarne un certo provincialismo o la subalternità dall’ America. L’Italiota fa assonanza con idiota, ma l’italiano non lo è, anzi è tutt’altro! Comunque, secondo Beppe Grillo, “l’italiano è ottimista per natura. Come potrebbe infatti vivere in Italia se non avesse una fiducia illimitata nel futuro? Perché per il presente le speranze le ha già perse tutte. E il passato tende a dimenticarlo. Eduardo de Filippo lo aveva già previsto: “Ha da passà ‘a nuttata”. Ma la notte che viviamo assomiglia a quella polare. Non passa mai. L’italiano, oltre a essere ottimista, è anche paziente. E crede nella Divina Provvidenza. Aspetta e spera insomma”. Ma fino a quando, mi chiedo io? D’altronde l’otto maggio 2005 (e non so se si fa tutti gli anni da allora in poi) con l’iniziativa promossa da Legambiente in numerosi Comuni italiani si è festeggiata l’orgoglio italiano, “l’italian pride”, l’orgoglio cioè di essere e sentirsi italiani. Con questo pseudoanglicismo composto dall’aggettivo “Italian” e dal sostantivo “pride” in circa 1600 piccoli Comuni si è celebrata la festa della Piccola Grande Italia sotto l’Alto Patronato del presidente della Repubblica, ma anche l’italiano dei medi e grandi Comuni deve essere orgoglioso di essere italiano. Ciò bisogna ricordarlo ai giovani di oggi, che sono gli “Italiani di domani” secondo gli otto suggerimenti proposti dal libro omonimo di Beppe Severgnini pubblicato in ottobre 2012. Se invece siamo pessimisti, allora cito i seguenti aforismi di Marco Raja: “Gli italiani sono un popolo di santi dissacrati, di poeti spoetizzati, di navigatori naufragati, di cittadini gabbati”.
Anche il giornalista Nello Ajello, secondo quanto riferisce Alberto Angelucci nel suo libro “Frasi Celebri” notava acutamente che, quando uno straniero vuol fare un complimento a un italiano gli dice: “You don’t look Italian”, che tradotto vuol dire: “Non sembri nemmeno italiano”. E noi generalmente ne siamo molto gratificati.

***

“Noi italiani siamo formidabili ricucitori polivalenti e polifacenti. Ma appunto per questo, prima di essere sarti, siamo dei grandi strappatori rovinatutto”.


L’ITALIA CINICA

Gli italiani non sono solo un popolo di poeti, di eroi, di santi, di navigatori, ma anche di evasori fiscali; senza offesa per nessuno di noi. Accanto agli onesti cittadini, ci sono molti evasori fiscali, tanto è vero che tre italiani su quattro ritengono che l’evasione fiscale sia un problema gravissimo e nove italiani su dieci chiedono ancora più rigore nella lotta all’evasione. Molti di noi non sanno che, se gli evasori fiscali pagassero le tasse, il Fisco avrebbe in tasca circa 100 miliardi di euro in più all’anno, quasi 8 miliardi e mezzo al mese.
Secondo il presidente della Corte dei conti, Tullio Lazzaro, “il vero guaio è che l’evasione fiscale italiana è la più alta di tutto il mondo occidentale. È uno scandalo. Non è né possibile né tollerabile. Altri sono riusciti a sconfiggerla, non si capisce perché l’Italiano no”. Ma qual è l’identikit dell’evasore fiscale? Se­condo uno studio di Bankitalia “la propensione all’evasione assume valori mediamente più elevati per i lavoratori indipendenti che per quelli dipendenti; per quest’ultimi la propensione a evadere risulta maggiore per gli operai e minore per i dirigenti e direttivi”. Sono questi gli evasori che vivono e prosperano nell’“Italia cinica” disegnata dal sociologo dell’economia Carlo Carboni nel libro “La società cinica”: “Un’Italia in cui alberga l’individualismo amorale, secondo il quale lo spazio pubblico è visto in funzione di un riconoscimento o di un vantaggio individuale: è l’Italia in cerca di scorciatoie, che rifà il verso ai “furbetti del quartierino”, che cerca di emergere a qualsiasi costo. È l’Italia che non rispetta le regole, l’Italia dell’evasione fiscale diffusa”.
Noi, onesti cittadini, dovremmo ribellarci al cinismo e alla furbizia di questa Italia, presenti nelle fasce alte e medio-alte di ricchezza della società italiana, ai politici che non consentono il cambiamento, non combattendo con efficacia questa quasi permanente evasione fiscale se non con lo scudo fiscale, che permette il rientro pulito in Italia di capitali e patrimoni diffusi all’estero (per non pagare le tasse). Ma, se non lo fanno bene quelli che comandano, cosa possiamo fare noi?


QUANDO L’ITALIA CI FA ARRABBIARE

“Quando l’Italia ci fa arrabbiare” è il titolo di un libro di Cesare Marchi, in cui ci spiega il miracolo di un Paese che ogni giorno sopravvive a sé stesso. E Mario Cervi nell’introduzione al libro di Stefano Lorenzetto, intitolato “Italiani per bene” conferma i concetti di Marchi scrivendo: “Sì, è un Paese, il nostro, che ci fa arrabbiare e qualche volta ci fa disperare. Il Paese degli egoismi anche sfrontatamente confessati, delle giungle pensionistiche e retributive, dei boiardi inamovibili e dei parlamentari flessibili”. Ma è anche il Paese degli Italiani per bene, come ci dimostra il contenuto del libro di Lorenzetto. Ci sono molti disonesti, ma la maggior parte è gente onesta, lavoratrice, con la testa sulle spalle. Perciò, anche se abbiamo intitolato il nostro libro “L’Italia in mutande”, sotto tra parentesi è scritto “ma in piedi”. E la stessa raffigurazione dell’Italia sulla copertina del nostro libro configura un uomo muscoloso, in mutande, ma in piedi (e non in ginocchio), perché nonostante la crisi e i problemi economici e politici della Nazione (per non parlare degli altri Paesi d’Europa), gli italiani sapranno sorgere dai mali che li affliggono, che mettiamo in evidenza in queste nostre riflessioni. Forza, rimbocchiamoci le maniche, come hanno fatto dopo il 1945 i nostri genitori o i nostri nonni, e saremo capaci di rimanere a galla.
Per salvare l’Italia dal debito pubblico, che in giugno 2012 ha stabilito un nuovo record arrivando a circa 2000 miliardi di euro d’indebitamento, con interessi di circa 80 miliardi ogni anno (finora), ci vorrebbero le “7 mosse x l’Italia”, un libro di Oscar Farinetti, contenente i pensieri di Giovanni Soldini e un po’ di amici in un viaggio in barca a vela da Genova a New York. Di tali mosse ne condivido quattro. La prima (Meno politici, più politica, riducendo i parlamentari da 5000 a molto meno, tagliando anche i loro stipendi, i loro privilegi, le loro indennità ecc), la seconda riguarda la lotta agli evasori totali e gravi (chi lavora “in nero”, chi esporta capitali, chi crea sedi nei paradisi fiscali ecc); a proposito bisogna dire che gli ultimi governi, sia quello di Berlusconi durante il suo mandato, e ancor più quello di Mario Monti nel 2011-2012 hanno inasprito la lotta agli evasori. Basta pensare a un finto esattore di Equitalia, scovato ad agosto 2012, il quale conquistava la fiducia dei debitori e si faceva consegnare ingenti somme di denaro. Il truffatore, un quarantacinquenne di Chieti, che dal 2009 non dichiarava alcun reddito al Fisco, è stato scovato dalla Guardia di Finanza di Pescara, aveva un tesoretto, tra cui cinque Ferrari, una Maserati, una Aston Martin, una Bmw e due moto, oltre a diversi immobili, per un patrimonio di oltre un milione di euro). La terza mossa consisterebbe nello sdemanializzare parte del patrimonio immobiliare statale, sull’esempio della Grecia, (che per rimanere in Europa sta cercando di vendere gli isolotti inabitati), iniziando da quello confiscato ai grandi mafiosi (cosa che il governo tecnico di Monti nel 2012 avrebbe dovuto fare prima della scadenza del suo periodo di governo), tanto che il ministro competente aveva confermato le alienazioni del patrimonio pubblico per importi da una quindicina di miliardi l’anno. La quarta mossa concerne il risolvere il problema dell’immigrazione. Concludendo, ogni protagonista di quel viaggio in barca ha detto la sua opinione, ma sono sicuro che molti italiani la pensano come loro. Onde evitare l’inflazione, cioè l’aumento dei prezzi, e la recessione, cioè il crollo della produzione e della disoccupazione, oltre che ridurre la spesa pubblica, Riccardo Illy, ex presidente della regione Friuli Venezia Giulia e Sindaco di Trieste, ha auspicato di “vendere ENI ed ENEL, sostenendo che, quando la barca affonda, io non mi metto a guardare se la zavorra è di valore o no: butto tutto a mare e cerco di salvarmi.” A queste proposte di un amministratore pubblico importante io aggiungerei: vendiamo anche Le Poste italiane e le Ferrovie italiane! Così almeno funzioneranno!


L’ITALIA DELLE INTERCETTAZIONI

Già nel luglio 2005 Sandro Bondi, coordinatore di Forza Italia, diceva: “Per un cittadino normale leggere sui giornali intercettazioni telefoniche o ambientali che dovrebbero far parte del segreto istruttorio dà davvero un’immagine non positiva del nostro Paese”. Lo seguiva a ruota Rocco Buttiglione, Udc, allora Ministro dei Beni Culturali, che confermava: “C’è una carenza della politica e non mi piace che questo vuoto sia stato riempito dalla magistratura e, addirittura, dai giornali che hanno pubblicato delle intercettazioni che dovrebbero essere secretate”. Ma anche quelli della minoranza, come Fausto Bertinotti, allora segretario di Rifondazione comunista, non replicava ma era della stessa opinione: “Dobbiamo discutere sul terreno politico perché le intercettazioni sono un’attività corsara e una malattia del sistema”. Da allora si è discusso tanto sulle intercettazioni telefoniche ma non si è concluso ancora niente. Michele Serra nel suo “Breviario comico” scrive: “Le intercettazioni sono spesso un grave arbitrio e una pesante violazione della vita privata: lo ha detto il garante della privacy in un’intercettazione telefonica pubblicata sui principali quotidiani nazionali: sapendo di essere intercettato, preferisce rilasciare solo dichiarazioni ufficiali, molto calibrate, anche quando telefona ai parenti. Uguale abitudine è stata ormai acquisita da tutti i principali esponenti politici e istituzionali”. Ciononostante, qualcuno ha la lingua lunga, avendo il vizio di parlare troppo al telefono, pur sapendo che il “Grande fratello” lo sta sentendo. Le intercettazioni sono lunghe orecchie che ascoltano imprudenti parole di sedicenti potenti, che, pensando d’essere tali, credono d’essere intoccabili e immortali. Com’è vero il proverbio che dice: si perde il pelo, ma non il vizio. Nel libro “C’era una volta l’intercettazione”, l’autore, il magistrato Antonio Ingroia scrive nell’introduzione: “Un marziano che si ritrovasse catapultato all’improvviso nelle aule e nei corridoi dei nostri palazzi del potere, a furia di sentire gli inquilini parlare con terrore di intercettazioni e progettare come abrogarle, si farebbe l’idea di essere capitato in una succursale della Banda Bassotti. Nei Paesi normali sono i criminali a essere ossessionati dal timore di venire intercettati e a predisporre tutti gli accorgimenti possibili per comunicare lontano da orecchie indiscrete. In Italia sono politici, amministratori, finanzieri, banchieri, imprenditori, top manager, alti ufficiali delle forze dell’ordine e dei servizi di sicurezza. (…) Tale è la paura dei nostri politici, di destra e di sinistra, di finire intercettati (…) che anche i più fanatici propagandisti della “sicurezza” e della “tolleranza zero” contro la criminalità sono disposti ad abrogare di fatto lo strumento più efficace per smascherare e incastrare i colpevoli dei reati. Franco Cordero, su “la Repubblica”, l’ha chiamata “criminofilia”. Non poteva usare termine migliore!
Si parla di intercettazioni in Italia da anni, per es. dal 22 maggio 2006: tra i primi atti del neoministro della Giustizia Clemente Mastella ci fu l’annuncio di un imminente provvedimento di restrizione delle intercettazioni. Le correnti di pensiero si moltiplicano: c’è chi vuole l’intercettazione pubblica, chi la vuole privata, chi solo per gli altri e non per sé stesso o per la sua famiglia, nel senso di restringere il campo delle intercettazioni solo a coloro nei confronti dei quali ci siano seri indizi di colpevolezza (limite soggettivo). Con la scusa di avere un po’ di privacy, si vuol realizzare un inciucio, un decreto che potrebbe rinfrescare l’aria e togliere dai giornali i cittadini per bene (ma certamente non sono politici o imprenditori di grosso calibro) spiati dai giudici. In poche parole si pensa e si dice: se la magistratura cerca delle prove, interroghi gli imputati, non percorra facili scorciatoie intercettandoli telefonicamente, così sono capaci tutti. Dopo le grandi discussioni del governo Berlusconi, che voleva approvare una nuova legge sull’uso delle intercettazioni telefoniche da parte della magistratura prima della fine della propria legislatura, interrotta bruscamente nel novembre 2011, un caso paradossale è quello, in cui la Procura di Palermo, indagando mediante intercettazioni telefoniche sulla trattativa dello Stato e boss mafiosi che sarebbe avvenuta dopo le stragi del 1992 /1993 (Falcone-Borsellino) per ottenere l’abolizione del trattamento del 41 bis per i boss mafiosi catturati. I giudici prendono di mira Nicola Mancino, che proprio in quei giorni era diventato ministro degli Interni e che, sentitosi perseguitato e accusato per falsa testimonianza, telefona prima al consigliere del Presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, per ottenerne l’appoggio, il quale poco dopo essere venuto a sapere dello scandalo delle intercettazioni avvenute nel 1992/1993, muore per un colpo apoplettico. Poi sono intercettati anche dei colloqui tra Mancino e Napolitano, che chiede la distruzione immediata delle bobine registrate che secondo lui violano le prerogative del Quirinale. Non ottenendola spontaneamente dalla magistratura, solleva il conflitto d’attribuzione (o di poteri) davanti alla Consulta della Corte costituzionale, date le tesi contrastanti delle due istituzioni (Quirinale e Procura di Palermo). Non essendo state neanche trascritte le bobine inquisite, come fa il settimanale Panorama a conoscerne il contenuto? Si dice: trattasi della solita talpa di corridoio, che passa ai giornali ciò che dovrebbe rimanere “segreto d’ufficio”. A tal proposito la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il ricorso presentato da Napolitano, nel senso che i giudici costituzionali hanno ammesso la discussione sul conflitto d’interessi sollevato dal Presidente della Repubblica contro la Procura di Palermo, e la Consulta della Corte Costituzionale ha deciso di salvare le prerogative garantite al Capo dello Stato dall’art. 90 della Costituzione, ordinando la distruzione delle intercettazioni che hanno captato il Capo dello Stato e l’ex-ministro. Solo quando si giungerà alla prossima fase, a quella sulla fondatezza o meno dei contenuti, verrà affrontato l’esame nel merito del ricorso. Nella memoria presentata ad ottobre 2012 alla cancelleria della Corte Costitu­zionale, la Procura di Palermo si costituisce in giudizio nel conflitto d’attribuzione sollevato dal Quirinale, sostenendo che “il Capo dello Stato italiano non è un monarca assoluto e quindi non gode di un’immunità assoluta, che può essere ipotizzata solo se, contraddicendo i principi dello Stato democratico-costituzionale, gli si riconoscesse una totale irresponsabilità giuridica anche per i reati extrafunzionali e una tale irresponsabilità finirebbe per coincidere con la qualifica di “inviolabile” che caratterizza il sovrano nelle monarchie ancora limitate”. Invece la Corte Costituzionale con la sentenza di gennaio del 2013 ha dichiarato che non spettava alla Procura di valutare la rilevanza delle intercettazioni né di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione delle intercettazioni ai sensi dell’art. 271 del codice di procedura penale.La distruzione delle intercettazioni riguardanti Napolitano e Mancino però è stata rinviata, poiché i legali di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, hanno ottenuto il rinvio di tale distruzione sostenendo che nelle telefonate possano esserci elementi utili alla difesa del loro assistito.
Almeno però, per evitare un dispendio di energie e di soldi, le intercettazioni dovrebbero essere limitate nel tempo (prestabilito dal legislatore e non dal magistrato di turno; occorrerebbe stabilire un termine massimo, un tetto imprescindibile entro cui una persona può essere intercettata, anche per evitare che sia spiata telefonicamente all’infinito). Comunque le intercettazioni telefoniche sono spesso un grave arbitrio e una pesante violazione della vita privata. Il garante della privacy ha detto di aver da tempo rinunciato alle conversazioni telefoniche personali: sapendo di essere intercettato, preferisce rilasciare solo dichiarazioni ufficiali, molto equilibrate, anche quando telefona ai parenti. A parte queste due casi eclatanti, c’è anche il problema che riguarda pure le intercettazioni telefoniche sui privati, come è successo nel caso Vieri, ultimamente venuto alla ribalta sulla stampa per il risarcimento dei danni subiti dal calciatore per il controllo telefonico fatto dall’Inter sulla sua vita privata prima di appendere le scarpe al chiodo. Nel frattempo il governo Monti, nonostante l’aiuto dei partiti che lo sostenevano, non è stato in grado di fare una nuova legge sulle intercettazioni.

***

La patria intercettazione, ogni giorno, ovunque dilaga e si fa piaga nella Nazione.

In Italia c’è libero accesso ad intercettarci persino nel domestico cesso. Sta diventando, l’intercettazione, fatto usuale sino al termine dello sciacquone.


L’ITALIA E I NAPOLETANI

Secondo Corrado Augias, che ce lo descrive nel suo “I segreti d’Italia”, Giuseppina Cavour Alfieri, nipote del conte, ha lasciato la descrizione delle ultime ore del grande statista. Nella spossatezza di una lunga agonia Camillo Benso di Cavour disse: “L’Italia del Settentrione è fatta, non ci sono più lombardi, piemontesi, toscani, romagnoli: siamo tutti italiani; ma vi sono ancora i napoletani: Oh, vi è molta corruzione nel loro paese. Non è colpa loro,povera gente, sono stati malgovernati. (…) Bisogna moralizzare il paese, educar l’infanzia e la gioventù, crear sale d’asilo, collegi militari: ma non si pensi di cambiare i napoletani ingiurandoli”. Quindi Cavour, poco prima della sua morte, avvenuta il 6 giugno 1861, aveva viaggiato più in Europa che in Italia, dove era arrivato fino a Firenze, senza conoscere neanche Roma, e non era mai entrato in Napoli, giustificava i napoletani, sebbene conoscesse la definizione di Napoli da parte del Leopardi, che l’apostrofò “città dei lazzaroni e dei pulcinella, semibarbara e africana”. Anche Charles Dickens (1812-1870), il più grande scrittore inglese, aveva scritto al suo amico John Forster, parlando di Napoli e dei napoletani, così: “Che cosa non darei perché tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l’ingrasso dei pidocchi; goffi, viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri”. Certamente il grande scrittore si riferiva al popolino, non al popolo di corte della capitale del Regno delle Due Sicilie, che, costituitosi nell’Italia meridionale nel sec. XIII, comprendeva le attuali regioni Abruzzo, Campania, Basilicata, Molise, Puglia, Calabria, Sicilia, oltre ad una porzione meridionale del Lazio (distretto di Gaeta). La peculiarità di tale Regno era che re Ferdinando, fino al Congresso di Vienna del 1815, assumeva due corone, quella di Napoli come Ferdinando IV e quella di Palermo come Ferdinando III, intendendo per vera e propria isola la “Sicilia ulteriore”, mentre la parte continentale del territorio era detta “Sicilia citeriore”con Napoli capitale. Napoli era talmente famosa che Edoardo Scarfoglio, giornalista e scrittore, marito di Matilde Serao, pochi anni dopo l’unità d’Italia la definì “l’unica città orientale che non abbia un quartiere europeo” e Benedetto Croce, gran filosofo e napoletano d’adozione, pubblicò, riferendosi a Napoli, il saggio intitolato “Un paradiso abitato da diavoli” sulla scia dei giudizi dei viaggiatori settecenteschi e dei mercanti fiorentini, lucchesi, pisani, veneti e genovesi che si recavano a Napoli per i loro traffici. A parte il favoloso clima, tanto da far scrivere a Cesare Angelini “Dal Vomero a Castel dell’Ovo, Napoli è un candore di bucato al sole”, il proverbio che Napoli fosse un paradiso popolato da diavoli risale addirittura al Trecento, in quanto la storia d’Italia è soprattutto la storia delle sue città e dei suoi abitanti. Per colpa di questo degrado Ugo Ricci (1875-1940), scrittore napoletano, scriveva: “La nostra povera e cara città di Napoli si potrebbe paragonare ad una vecchia duchessa decaduta e costretta, per vivere, a far la cameriera. Non ha ormai più nulla della duchessa ed è una deplorevole cameriera. Pigra, bizzosa, indisciplinata…” Dato atto che Napoli è attualmente la terza città italiana per popolazione, i napoletani sono sempre stati detti “partenopei”, perché anticamente Napoli era chiamata Partenope, ed era una colonia cumana del sec. VII a.C., poi diventata impianto urbano di “Neapolis” (sec.V. a.C.) e deriva il nome da una sirena che la leggenda vuole sepolta nel luogo dove sorse poi la città. I bambini o ragazzi napoletani sono stati denominati “scugnizzi” di strada, e sono rappresentati dai monelli napoletani vivaci e irrequieti che giocano e vivono nei quartieri di periferia. Da maggiorenni rischiano poi, per carenza di lavoro, di entrare a far parte della “camorra” peggiorando la loro situazione. I napoletani sono stati chiamati anche “lazzaroni” termine spagnolo e seicentesco riferito ai cenciosi popolani di Napoli, ribellatisi nel 1647 contro il dominio vicereale sotto la guida del pescatore Tommaso Aniello, meglio noto come Masaniello. In spagnolo “lazaro” significa straccione, poveraccio e in senso spregiativo mascalzone e più anticamente indicava il lebbroso, con preciso riferimento al mendicante coperto di piaghe che nel Vangelo di Luca cerca di raccogliere qualche briciola al convitto del ricco epulone, che apprezza i cibi succulenti, e che si chiama appunto Lazzaro. Ancora oggi i napoletani sono considerati sporchi terroni, come dimostra l’episodio capitato davanti ai cancelli dello stadio torinese della Juve: un tifoso di tale squadra ha spiegato prima della partita Juve-Napoli del 21 ottobre 2012 al giornalista intervistatore: “I napoletani sono ovunque, al nord,al centro, al sud” e il giornalista ha commentato la frase: “E voi li distinguete dalla puzza… con grande signorilità”. Questa frase infelice, pubblicata il giorno dopo sui giornali sportivi di tutta Italia ha comportato commenti sfavorevoli e portato poco dopo al licenziamento del giornalista colpevole da parte della direzione del suo giornale, ma è vero un antico proverbio, che qualifica il napoletano “mangiapane, schiacciapidocchi e suonacampane” per dire che il napoletano è un fannullone che si accontenta di sfamarsi, passa il tempo a levarsi di dosso i pidocchi, frutto della sua sporcizia, e fa continuamente festa, anche se è altrettanto vero che si riferisce solo alla miseria dei ceti più umili di Napoli. Non dimentichiamoci che Napoli, oltre ad essere città di storia millenaria e di straordinarie bellezze naturali, tanto da essere appellata “il giardino d’Italia”, è stata capitale del reame borbonico e fu dal Seicento fino all’Unità d’Italia, uno dei centri culturali più importanti del Continente europeo, caratterizzato dalla vivacità della classe intellettuale e dalla ricchezza dei nobili. Infatti un nobile come il Principe De Curtis, grande artista comico di livello mondiale con il nome di Totò, ha riabilitato il popolo napoletano, quando ha detto nel film “Totò e Peppino divisi a Berlino”: “Il napoletano lo si capisce subito da come si comporta, da come riesce a vivere senza una lira”. In poche parole il napoletano è un popolo che “si arrangia”, anche se il suo territorio è immerso nell’immondizia.Il principe De Curtis poi in privato ha confermato: “Sono napoletano, membro della C.N.E.F.: ‘cca nisciuno è fesso” e, fiero delle sue origini, ha puntualizzato: “Io sono parte napoletano e parte-nopeo, cioè due volte napoletano”. E poi Totò diceva: “Sono veramente fiero di essere meridionale. Almeno due volte all’anno ho bisogno di rivedere Napoli, di sentirne l’odore. La città è magnifica, ma lo è soprattutto la gente. A Napoli esistono due categorie di persone: quelle perbene e quelle… no. I mascalzoni a Napoli non esistono”. Anche Francesco II Re del trono borbonico delle Due Sicilie (durato centoventisette anni) l’8 dicembre 1860 in un ringraziamento accorato agli uomini che lo stavano difendendo dall’invasione piemontese e garibaldina, disse: “Io sono Napole­tano, nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri Paesi, non conosco altro suolo, che il suolo natio.Tutte le mie affezioni sono dentro il regno; i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni le mie ambizioni”. Molti anni dopo Luciano De Crescenzo nel suo libro “I pensieri di Bellavista” scrive: “Il popolo napoletano è in assoluto il più generoso che esista. Accolse Annibale a Capua come un trionfatore. Acclamò Nerone quando venne a cantare a Napoli; grazie a una claque addestrata per l’occasione, e, nel 1938, quando Hitler percorse in un’auto scoperta tutta via Caracciolo gli dedicò una canzone intitolata “Serenata a Hitler”, il cui ritornello diceva: – Benvenuto a ’sta città
tutto ‘o sole ’e Napule lucente
te saluta cu ‘e parole cchiù
sincere d’amicizia e fedeltà.
Il compositore si chiamava Evemero Nardella, già autore di “Chiove” e di “’Miezo ‘o grano”.
Conclude De Crescenzo: “Io, all’epoca, ero vestito da balilla marinaretto.” Quindi essere napoletani significa essere innanzitutto ospitali verso chiunque venga a visitare la città anche uno come Hitler!


L’ITALIA DELLA DICHIARAZIA

Scrive nel libro “Dichiarazia” Mario Portanova: “La Dichia­razia è una degenerazione della democrazia, è la libertà di pensiero che diventa pensiero in libertà. È una perversa spirale tra politica e media che ogni giorno ci inonda di centinaia di dichiarazioni, di fumo verbale che annebbia la realtà dei fatti e l’attività politica seria. Dichiarano i leader e i gregari, i ministri e i loro portavoce, i parlamentari nazionali e i consiglieri comunali, e tutti dichiarano su tutto. La dichiarazione monta su quella precedente, ne provoca una successiva e così via”. Bla, bla, bla, parole al vento che trasformano il detto latino “cogito, ergo sum” in quello latino italianizzato: “Dichiaro, ergo sum”. Però dopo arrivano le smentite, perché le prime dichiarazioni non erano altro che bugie o false verità. Si dichiara in televisione, in internet, nei talk show, e così si narcotizzano gli elettori con l’abuso delle parole, affermando che il dichiarante ha sempre ragione. Ma non è così, perché molte dichiarazioni sono contraddette dai fatti e dai comportamenti. Quindi, perché blaterare a vuoto? Sarebbe meglio parlare meno e privilegiare i fatti.

[continua]


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